Con un mese di eventi e convegni, culminati il 21 settembre nella giornata mondiale dell’Alzheimer, le associazioni di medici e pazienti e le autorità sanitarie internazionali richiamano l’attenzione su questa malattia, il cui peso è destinato ad aumentare nei prossimi decenni. Le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblicate nel recente rapporto su Alzheimer e demenze, parlano di oltre 55 milioni di malati che, per via dell’invecchiamento della popolazione, diventeranno 78 milioni nel 2030 e 139 nel 2050. E di un costo che, tenuto conto del probabile aumento dei prezzi di farmaci e terapie, salirà dai 1.300 miliardi di dollari del 2019 a 2.800 nel 2050.
Eppure, rileva l’OMS, per affrontare questa situazione non si fa abbastanza. Lo dicono con chiarezza i numeri del rapporto, che è stato stilato allo scopo di verificare lo stato di attuazione della roadmap per il 2025, tracciata dal Piano d’azione globale prodotto quattro anni fa.
«Il mondo sta abbandonando i pazienti con demenza, e questo fa male a tutti», ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS: «i governi hanno concordato una serie chiara di obiettivi per migliorare la cura della demenza, ma gli obiettivi da soli non bastano. Abbiamo bisogno di un’azione concertata per garantire che tutti i pazienti siano in grado di vivere con il sostegno e la dignità che meritano.»
Partiamo dalle cure per la più impegnativa delle demenze: il morbo di Alzheimer. Non esistono farmaci in grado di rallentarne la progressione, ma soltanto medicine che agiscono sui sintomi (donepezil, rivastigmina e memantina) con benefici limitati. La recente approvazione, negli USA, dell’aducanumab, un anticorpo monoclonale, non cambia purtroppo la situazione. Il farmaco, che va somministrato nelle fasi precoci della malattia, è il primo che permette di incidere sui meccanismi della patologia, perché contrasta la formazione delle placche di proteina beta-amiloide, che determinano la degenerazione dei neuroni. Tuttavia l’efficacia è estremamente limitata (0,3 punti su una scala da 0 a 18), a fronte di costi elevatissimi (più di 50.000 dollari l’anno) e di effetti collaterali rilevanti. Per questi motivi, l’approvazione dell’aducanumab da parte della FDA ha suscitato polemiche accese, mentre l’EMA, l’autorità europea, non si è ancora espressa.
L’OMS ritiene quindi indispensabile investire in ricerca, ponendosi come obiettivo quello di raddoppiare il numero di pubblicazioni scientifiche sulle demenze entro il 2025. E recentemente, dopo un periodo di stop legato anche al fallimento di alcuni importanti studi, il settore ha ripreso vigore, in particolare in Canada, Regno Unito e Stati Uniti (questi ultimi hanno aumentato gli investimenti da 631 milioni di dollari del 2015 a 2,8 miliardi nel 2020). Tuttavia, gli articoli pubblicati su riviste specializzat, relativi alle demenze, sono ancora 14 volte meno numerosi di quelli su altre malattie, come i tumori, il diabete o le cardiopatie.
Molto potrebbe essere fatto anche nella prevenzione, una voce presente in appena il 58% dei piani che i vari Paesi hanno messo a punto. Lo scorso anno, un lungo articolo pubblicato su Lancet rilevava che il numero di casi potrebbe essere ridotto del 40%, intervenendo sui 12 fattori di rischio legati allo sviluppo di queste patologie. Occorre dunque agire sugli stili di vita, eliminando il fumo, riducendo il consumo di alcolici, praticando regolarmente attività fisica e mantenendo una vita sociale attiva. Ma ci sono anche fattori che dipendono dall’ambiente in cui viviamo (l’inquinamento dell’aria) o da come siamo cresciuti: chi ha un basso livello di istruzione è più a rischio. Esistono, infine, condizioni e patologie che predispongono alle demenze (obesità, ipertensione, diabete, depressione, sordità e traumi cranici), e che possono a loro volta essere prevenute agendo sugli stili di vita.
Poiché i fattori di rischio legati allo sviluppo di molte malattie croniche si sovrappongono a quelli che aumentano il rischio di demenze, l’OMS consiglia di stilare un unico piano di prevenzione volto ad affrontare la questione nella sua interezza, valutando anche con maggiore attenzione le misure realmente efficaci (per esempio, l’aumento del prezzo delle sigarette funziona meglio di una generica campagna di informazione sui rischi del fumo).
L’altro nervo scoperto riguarda infine l’assistenza ai malati e ai loro familiari. Secondo il Piano globale sulle demenze, entro il 2025 il 75% dei Paesi dovrebbe dotarsi di un programma nazionale ad hoc, ma attualmente siamo fermi al 26%. Inoltre, più della metà degli Stati che hanno stilato il loro piano è in Europa (e anche qui si tratta spesso di documenti prossimi alla scadenza), mentre altre parti del mondo sono totalmente scoperte.
Il divario fra i Paesi ricchi e quelli poveri è rilevantissimo anche nella fornitura dei medicinali (che sono più spesso a carico delle famiglie proprio nelle aree di maggiore povertà) e nella presenza di medici e personale sanitario con una formazione specifica: nei Paesi a medio e basso reddito ci sono 0,02 psicogeriatri ogni 100.000 abitanti, contro i 2,2 dei Paesi ricchi. Anche nel mondo benestante, comunque, i programmi sono spesso sottofinanziati e l’assistenza ai malati è insufficiente. Spesso a prendersene cura sono i familiari. Nel 70% dei casi si tratta di donne, che trascorrono in media 5 ore al giorno con i loro congiunti e sono spesso costrette a lasciare il lavoro.
FONTE: Focus
A cura di
Redazione
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