Quando uno sportivo può essere considerato professionista?
La definizione viene fornita dalla legge 91 del 23 maggio 1981 art. 2: “sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal Coni per la distinzioni dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.
Ciò significa che, volendo parafrasare quanto appena riportato, a decidere quali discipline sportive siano o meno professionistiche è il CONI in collaborazione con le Federazioni Sportive.
A oggi, in Italia, sono solo 5 le Federazioni che prevedono la presenza di professionisti e che hanno, nella loro struttura, un’apposita sezione dedicata al professionismo: FIGC (calcio), FIP (pallacanestro), FCI (ciclismo), FIG (golf) e FPI (pugilato – che ha un inquadramento differente e particolare).
Il professionismo, in Italia, fatta eccezione per la Federazione Golf, riguarda solo gli atleti di sesso maschile, ergo, nessuna donna sportiva ha lo status di professionista. Ciò, negli ultimi anni, ha incrementato ancora di più la “discriminazione” tra uomini e donne nell’ambiente sportivo, in particolar modo in ambito calcistico. Infatti, le donne, al pari dei colleghi di sesso maschile, si allenano e si dedicano allo sport con una costanza pari (se non maggiore) a quella dei loro colleghi maschi.
Ad introdurre ufficialmente il professionismo nello mondo sportivo femminile sarà, come per i maschi negli anni ‘80, il calcio, complici anche gli ultimi successi in campo della nostra Nazionale Italiana femminile ai mondiali del 2019.
È iniziata, così, una battaglia per l’introduzione del professionismo, dapprima solamente a livello mediatico e successivamente, anche da parte delle istituzioni; la FIGC, infatti, anche a seguito delle pressioni da parte della FIFA e della UEFA, ha imposto, ai club professionistici maschili, di dotarsi di una sezione femminile.
La notizia più importante e attualmente in rilievo è giunta a giugno 2020: la FIGC ha finalmente dato il suo consenso per avviare il riconoscimento del professionismo al calcio femminile a partire dal 2022/2023 e, con molta probabilità, a gennaio 2021 verrà finalmente varata dal Parlamento, la tanto attesa legge che riconosce il professionismo femminile.
Tale data è stata indicata proprio dal Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora nel corso di un suo intervento all’evento digital sulle pari opportunità: “Sul professionismo femminile ci siamo, una volta approvate queste norme in Consiglio dei Ministri c’è un iter, che dovrebbe durare due mesi, quindi a gennaio 2021 il professionismo femminile sarà legge”.
Cosa cambierebbe con la legge sul professionismo femminile?
Sottintendendo che la Federazione di riferimento deve prevedere nel proprio statuto una sezione dedicata al professionismo, l’atleta diventa a tutti gli effetti, in base ai regolamenti federali, un professionista e potrà o dovrà stipulare un contratto ai sensi della legge 91, contratto che, quindi, applicherà la disciplina e le tutele del contratto di lavoro subordinato (salvo quanto specificamente escluso dalla legge stessa). L’atleta godrebbe un proprio trattamento previdenziale e pensionistico ed una assicurazione sanitaria integrativa obbligatoria, oltre che una specifica tutela della salute; come in ogni settore del lavoro subordinato, si applicherebbero i contratti collettivi di settore. Infatti, la differenza fra il contratto dell’atleta professionista e quello del dilettante è racchiusa in tutte le garanzie e le tutele che caratterizzano il trattamento del lavoratore dipendente che non sono contemplate per il non professionista.
A cura di
Dott.ssa Nunzia Spaltro e Dott.ssa Annapaola Biondo
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