All’indomani dell’annuncio della nascita della Superlega Europea di calcio, il paragone più inflazionato è stato quello con la lega statunitense americana di basket, meglio nota come NBA, acronimo di National Basketball Association. Alla radice di questa comparazione vi è l’idea di una competizione a circuito chiuso, un campionato a partecipanti prestabiliti teso alla massimizzazione dello spettacolo e dei profitti ma, anche e soprattutto, per l’assenza di retrocessioni o del merito sportivo.
Il paragone nasce sia tra i sostenitori della Superlega che tra i denigratori: Andrea Agnelli, presidente della Juventus, durante il suo discorso tenuto assieme al suo alter ego del Real Madrid, Florentino Pérez, ha definito l’NBA come esempio a cui ispirarsi; dall’altra parte, invece, i critici ritengono l’NBA non esportabile e non applicabile in Europa. In realtà, stando, ovviamente, a quanto dichiarato da 12 club fondatori della Superlega, senza ipotizzare su eventuali miglioramenti o cambiamenti futuri del progetto, vi sono una serie di differenze tra il funzionamento della Superlega e l’NBA, sia di carattere sportivo che economico e di business.
L’NBA in dettaglio
L’NBA ha elaborato alcune misure per evitare che determinate squadre diventino troppo più forti delle altre, così da garantire un ricambio frequente al vertice della lega, assicurando, inoltre, competitività e controllo reciproco. La prima misura, appunto, è il Salary Cap, principio fondante dell’NBA, nessuna squadra può superare il monte ingaggi prestabilito per i propri giocatori, in tal caso, incorre in multe salate. Inoltre, fissa un limite minimo e massimo di spesa e se tali soglie vengono superate, vengono pagate le “Luxury Tax” (in base allo sforamento) che vengono suddivise tra le altre squadre che non hanno sforato tali limiti. La seconda misura, invece, è il Draft, misura di eccellente distribuzione del talento: è la possibilità di scegliere “nuovi” giocatori, puntando, in prospettiva, a quelli più talentuosi. Il draft consiste nell’arrivo di giovani talenti, molto spesso uscenti da college statunitensi o da altri campionati di basket del mondo, con una metodologia che avvantaggia le squadre che, nell’anno precedente, hanno occupato gli ultimi posti della classifica: hanno la possibilità di scegliere per prime i nuovi talenti a cui offrire un contratto per la stagione. In NBA, quindi, non vi sono vivai, si “pesca” da università o dai giocatori in giro per il mondo e i roster cambiano profondamente ogni anno. L’NBA è una lega “governata” dai cestiti e non dai club. Non esiste la possibilità di comprare i giocatori come avviene nel calcio, il significato di plusvalenza è sconosciuto, non ci sono debiti finanziari come si conoscono da questa parte dell’oceano; il concetto di base è il trade, ovvero lo scambio di giocatori tra due o più squadre, regolamentato dalle regole del CBA “Collective Bargaining Agreement“. Ogni cestista che arriva in un’altra franchigia si porta con sé i termini salariali del precedente contratto, perciò, le rispettive franchigie dovranno effettuare i dovuti compromessi per non superare il Salary Cap ed incorrere nella Luxury Tax. Inoltre, è importante evidenziare che i giocatori di NBA, anche i più forti, hanno un limite minimo e massimo di salario stabilito proprio dalle regole della CBA.
Infine, l’NBA è detentrice del potere e del controllo su tutte le 30 franchigie e può influenzare le sorti delle stesse; queste, si affidano ad un’unica figura il commissioner NBA che è esterna alle dinamiche e soprattutto all’organigramma delle squadre e, inoltre, addirittura, l’NBA ha la possibilità di disporre di addetti indipendenti che lavorano sulla diffusione del brand NBA e uffici che mediano tra le varie franchigie.
A cura di
Dott.ssa Nunzia Spaltro e Dott.ssa Annapaola Biondo
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